Monday, July 2, 2018

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino - Christiane F.


Berlino, anni Settanta. Christiane F. ha dodici anni, un padre violento e una madre spesso fuori casa che ce la mette tutta per crescere la sua famiglia. Inizia a fumare hashish a dodici anni, a prendere Lsd, efedrina e mandrax. A tredici passa all'eroina, a quattordici si prostituisce. É l'inizio di una discesa nel gorgo della droga da cui risalirà faticosamente dopo due anni. Il racconto, vero, di un'adolescenza vissuta ai margini di un'intera società.

Nel retro di copertina si legge spesso "e una madre spesso fuori casa". Questo mi ha fatto infuriare subito. La madre va semplicemente a lavorare a tempo pieno. Ma questa attività messa accanto a quella del padre violento la mette in cattiva luce secondo me. O è solo una mia impressione? Inoltre bisogna dire che la madre lavorava a tempo pieno perché il padre, disoccupato e senza volontà di trovare qualcosa, spendeva tutti i soldi in alcol.

Anche il titolo italiano mi ha fatto ribaltare dalla sedia. In questo libro non troviamo "ragazzi", bensì bambini (forse più appropriato ragazzini?). Infatti il titolo originale è "Wir, *Kinder* vom Bahnhof Zoo" dove la parola Kinder, significa appunto bambini; non so perché si sia arrivati a "ragazzi", dove uno dei punti cruciali di questa biografia è proprio il fatto che la droga si sia fatta strada nella vita di giovanissimi.


Mi ha intristito molto leggere, oltre del giro della droga tra dodicenni, di tutti quei porci che favorivano la prostituzione minorile.

Durante la lettura mi sono chiesta come si é arrivati al libro? Se ve lo state chiedendo anche voi, ecco la risposta: Nel 1978 Christiane Vera Felscherinow si trova al banco dei testimoni in un processo. Lì due giornalisti, Kai Hermann e Horst Rieck, le chiedono un’intervista per far luce sulla situazione dei giovani. Iniziano con un’intervista ma si incontrano per i successivi due mesi raccogliendo sempre più materiale su quella realtà giovanile fatta di degrado, eroina e prostituzione. Da questa lunga testimonianza ne nasce il libro e il film.

Christiane F. ha voluto questo libro perché, come quasi tutti i ragazzi bucomani, pretende che sia rotto il vergognoso silenzio degli adulti sulla realtà della tossicodipendenza. Le testimonianze della madre di Christiane e di altri che hanno avuto contatti con lei ci auguriamo contribuiscano ad una visione della vicenda dai diversi punti di vista e ad un'analisi più completa del problema della tossicodipendenza.8 aprile 1976 - Kai Hermann e Horst Rieck

Questo libro parla non solo di dipendenza da eroina ma anche dell'abbandono da parte della società. Leggendolo si riesce a percepire il malessere di Christiane (e anche di sua madre quando cerca aiuto), la mancanza di un punto di salvezza, qualcuno a cui chiedere aiuto professionale. È triste leggere che la droga viene vista all’inizio come metodo di evasione dalla realtà e di accettazione da parte del gruppo. È triste perché questo gruppo di ragazzini è grande e chiedono tutti una sola cosa: aiuto. Nessuno ha tempo per loro, nessuno se ne preoccupa più di tanto un po’ per mancanza di tempo un po’ perché lo schifo è ovunque. La droga all’inizio dà, ma poi si riprende tutto e con gli interessi.

Un testo molto forte e reale che secondo me tutti dovrebbero leggere. Sono convinta che molte persone troveranno conforto in questa testimonianza e vedranno le relazioni umane con altri occhi.

Altre cose che nel libro mi hanno lasciato davvero a bocca aperta:

La scuola tedesca degli anni ‘70/’80. Classi con più di 100 studenti e carenza di insegnanti. Inoltre viene già qui fatta una differenza di classe sociale tra studenti. Purtroppo oggi è ancora così: in base ai voti, alla rendita dello studente si decide già il suo futuro professionale. In base a che tipo di scuola fai, ti ritrovi categorizzato.

Nessun posto per i bambini per giocare. Con tanto di cartelli che lo vietano.

• La (quasi) totale indifferenza da parte della società. Medici che ti dicono che se ti buchi, sei feccia.. ma che robe sono? Ospedali che anche sei hai l’itterizia ti lasciano aspettare ore di attesa per poi dirti che devi andartene.

La testimonianza di Christiane mi ha mostrato anche un aspetto della tossicodipendenza: un tossicodipendente non ha una vita vera e propria. Nel senso che tutto ruota attorno a come procurarsi la prossima dose.

Tra bucomani l'amicizia non esiste proprio. Sei totalmente sola. Sei sempre sola. Tutto il resto te lo inventi. Tutto quell'orrore per una pera, quel pomeriggio. Ma non era proprio un caso particolare. Tutti i giorni é lo stesso orrore.

E proprio un ambiente sano, circondata da persone non coinvolte dal giro può già fare una grossa differenza:
 Già non appena mia madre mi mise sul treno ero di nuovo solamente Christiane. E dopo, quando mi ritrovai seduta nella cucina di mia nonna era come se non fossi mai stata a Berlino. Immediatamente mi sentivo davvero a casa. Mia nonna, seduta così tranquilla, già mi dava la sensazione di essere a casa. Le volevo un gran bene. E la sua cucina mi piaceva da pazzi. Era come in un libro illustrato. Una vera vecchia cucina contadina con il camino ed enormi pentole e padelle nelle quali sempre friggeva qualche cosa. Di un piacevole pazzesco.
 Con i miei cugini, le mie cugine e gli altri del paese che avevano la mia stessa età mi intesi subito di nuovo. Erano tutti ancora dei veri bambini. Come me. Mi sentivo di nuovo, non so più da quanto tempo, come una bambina. Gettai in un angolo i miei stivali col tacco alto. Mi feci prestare da altri, secondo il tempo che faceva, sandali o stivali di gomma. Il trucco non lo toccai mai. Qui non dovevo dimostrare niente a nessuno. Andavo molto a cavallo. Giocavamo a rincorrerci a cavallo o a piedi. Il nostro posto preferito era sempre giù al torrente. Eravamo tutti diventati più grandi e le dighe che costruivamo erano diventate gigantesche. Dietro si formavano dei veri laghi artificiali. E quando alla sera aprivamo una breccia nella diga, un getto di almeno tre metri scorreva giù per il torrente. Gli altri naturalmente volevano sapere come era Berlino, cosa facevo là. Ma io non raccontavo molto. Non volevo affatto pensare a Berlino. Era incredibile, ma non pensavo neanche più a Detlef. In effetti ogni giorno avrei voluto scrivere a Detlef una lettera. Non gli scrissi una sola volta. La sera talvolta mi sforzavo di pensare a lui. Ma a malapena riuscivo a immaginarmelo. Lui era in un certo senso una persona che apparteneva a un altro mondo, di cui non comprendevo più i segnali. La sera, a letto, mi prendeva spesso un orrore infinito. Mi vedevo i tipi del Sound come spettri davanti a me e pensavo che presto sarei dovuta tornare a Berlino. In quelle sere provavo un terrore bestiale di Berlino. Allora pensavo di pregare mia nonna di lasciarmi restare da lei. Ma come avrei potuto motivare una cosa simile, anche nei confronti di mia madre? Avrei dovuto raccontare loro tutto delle mie esperienze con la droga. Ma questo non sarei riuscita a farlo. Credo anche che mia nonna sarebbe rimasta stecchita sulla sedia se le avessi raccontato che la sua piccola si iniettava eroina. Dovetti tornare a Berlino. Il casino, le luci, l’agitazione, tutto ciò che prima avevo amato di Berlino, ora mi innervosiva terribilmente. La notte con il chiasso non riuscivo quasi a dormire. E sul Kurfürstendamm tra le macchine e la folla mi prendeva un vero panico."

Degno di nota è anche quanto detto da Berndt Georg Thamm, direttore del consultorio di psicologia sociale della Charitas di Berlino. Spiega esattamente i motivi che spingono all'uso della droga: Comunicazione assente, famiglie distrutte da problemi quali alcool, droga, povertà; comprensione dell'egemonia del denaro. Pubblicità che porta al ragazzo a desiderare ciò che non può avere e portandolo a richiudersi nel suo mondo "magico" (eroina) che non produce emozione, ma semplicemente allontanamento dei problemi.

Parlavamo molto di cose irreali. Un riferimento alla realtànon lo avevo più. Il reale per me era irreale. Non mi interessavano né il passato né il futuro. Non avevo progetti, ma solo sogni.

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