Friday, November 25, 2016

{Moby Dick} Capitolo VII - La Cappella

Il tempo era passato da un freddo sereno e pulito alla nebbia e al nevischio violento. Mi strinsi addosso il giaccone peloso di quel panno chiamato pelle d'orso, e mi apersi un varco tra la bufera cocciuta. Regnava un silenzio oppresso, rotto solo ogni tanto dalle strida della tempesta.

Ismael esce dalla locanda, dove ha pernottato e fatto appena colazione, per andare a fare un giro in centro u_u e perché no? Dopotutto fa solo un freddo cane fuori, ma nella locanda non hanno nemmeno i soldi per delle candele quindi tanto vale gelare fuori. u_ú 




La cappella si presenta giá tetra: al suo interno sulle pareti laterali ha delle lapidette di marmo in ricordo ai vari dispersi in mare il cui corpo probabilmente non sará mai trovato. 

Qui Ismaele fa un pensiero davvero molto toccante:

Voi che avete morti seppelliti sotto l'erba verde, che stando tra i fiori potete dire: Qui, qui giace il mio caro, voi non sapete che desolazione cova in petti come quelli. Che vuoti amari in quei marmi bordati di nero che non coprono ceneri! Che disperazione in quelle scritte immutabili! che privazioni mortali e infedeltà non volute in quelle righe che paiono rosicchiare ogni fede, e rifiutare la resurrezione a degli esseri morti chi sa dove, senza tomba. Invece di qui, queste lapidi, potrebbero stare benissimo nella caverna di Elefanta.

Beh che dire, ha ragione. Deve essere difficile sapere di una persona cara dispersa, non si sa se viva o morta, quale tragedia se l'é portata via. É l'incertezza ha logorare le anime dei fedeli raccolti nella cappella intenti a guardare quelle lapidette.

Sicuro, Ismaele, ti può toccare la stessa sorte. Ma non so perché, mi tornò l'allegria. Incentivi affascinanti all'imbarco, forse, buone probabilità di promozione. Come no: una lancia che si sfonda, e ho il brevetto d'immortale in tasca. 

E adesso si torna al filosofico:

Ho l'impressione che abbiamo travisato in maniera madornale questa storia della vita e della morte. Ho il sospetto che ciò che chiamano la mia ombra qui sulla terra, sia la mia sostanza vera. Ho l'idea che nel guardare alle cose spirituali siamo troppo come l'ostrica, che osserva il sole attraverso l'acqua, e ritiene quel liquido denso la più fine delle atmosfere. Credo proprio che il mio corpo sia soltanto la feccia della mia essenza migliore. In verità si prenda questo mio corpo chi vuole, se lo prenda pure, non è affatto me stesso. E allora tre evviva a Nantucket; e mi si sfondi pure la lancia, o mi si sfondi la pancia quando ha da essere, perché di sfondarmi l'anima neanche Giove è capace.

Ci vediamo presto col prossimo capitolo,
Beatrice 

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